Enrica Acuto Jacobacci intervistata da Christian Benna per Corriere Torino 

«Torino in declino? Macché: questa è la città dei ragazzi. Lo vediamo dal numero di brevetti innovativi, proposti da startup e da under 40, che ci arrivano. Ora però è il tempo di pensare in grande e far crescere questi giovani. Noi tutti dobbiamo cambiare atteggiamento culturale: agevolare il passaggio generazionale, investire di più sulle buone idee e fare sistema con Milano». Enrica Acuto Jacobacci è ceo di Jacobacci & Partners, la prima società italiana nella tutela e valorizzazione dei diritti di proprietà industriale (e tra le prime tre in Europa), un’azienda la cui sede, uno scrigno d’arte che dispone di una collezione di oltre 300 pezzi unici, è la prova plastica di come la trasformazione tecnologica può diventare (o lo è già?) il core business di Torino. Negli archivi del quartier generale in corso Emilia 8, da cui dipendono altre 16 sedi in Italia e in Europa e più di 300 addetti, che generano 75 milioni di fatturato l’anno, ci sono 100 mila brevetti e 100 mila marchi, tutelati e gestiti per conto di 10 mila imprese. In pratica una cassaforte dell’innovazione nel centro di Torino. «In Italia negli ultimi due anni, nonostante la pandemia, si è verificata una massiccia corsa ai brevetti (+3%) — spiega Enrica Acuto Jacobacci —. Siamo un popolo di inventori ma oggi viviamo una fase di accelerazione della creatività tecnologica, ora la sfida è far sì che l’ innovazione abbia ricadute economiche sul territorio. Per farlo non bastano le buone idee, bisogna fare sistema e cambiare approccio culturale».

Enrica Jacobacci, assistiamo a un boom di brevetti in Italia. Torino è la seconda città per depositi. Siamo diventati una città di Archimede?

«Lo siamo sempre stati. Qui la tecnologia è di casa. Dal cinema all’auto agli Mp3. I nostri uffici una volta erano la sede di Gft, dove è nato il pret- a-porter. Unico problema: tante di queste invenzioni sono volate via, spesso senza radicarsi in imprese in grado di attrarre talenti e quindi di creare nuove imprese. La vera sfida non è diventare città della conoscenza, ma città che si sviluppa con la conoscenza».

Milano è la prima città per numero di brevetti. Perché Jacobacci mantiene il quartier generale a Torino?

«A Milano c’è la nostra seconda sede italiana, due città, due approcci al business diversi, ma perfettamente integrati. A Torino viviamo un costante clima da derby con il capoluogo lombardo che non fa bene a nessuno. Sul Tribunale Ue dei brevetti ci siamo fatti la guerra e ora rischiamo che vada altrove, anche se la forza reputazionale di questo governo potrebbe garantire una sede nel nostro Paese. Ma se vogliamo diventare una città europea dobbiamo ragionare come un unico territorio: Torino più Milano».

A Torino formiamo i talenti, che poi vanno lavorare a Milano o all’estero. Un territorio a senso unico?

«Il nostro limite è non sapere tradurre tutte queste buone idee innovative in nuove imprese. Insomma il problema non è la vicinanza con Milano, ma l’incapacità di fare sviluppo. Ricordiamoci che l’80% dei brevetti innovativi europei sono registrati in Germania. Quella è la cima della montagna da raggiungere non strapparci eventi e sedi con Milano».

Perché facciamo fatica a fare sviluppo?

«Siamo una società maschilista e gerontocratica che fa fatica ad agevolare il passaggio generazionale e il cambiamento culturale. Troppo chiusa su se stessa. Non mi riferisco solo a un tema di leadership, ma di investimenti. A Torino c’è ancora tanta ricchezza spesso nelle mani di persone più “âgée” che preferiscono la sicurezza al rischio. Bisogna investire di più nei giovani e nelle startup. Qualcosa però si muove basta pensare al Club degli Investitori, che sta crescendo come modello di sostegno collaborativo alle nuove imprese».

Il trasferimento tecnologico può essere il core business della città?

«In parte già lo è, ma a patto che questa innovazione maturi qui sviluppandosi in nuove aziende. In questo senso sono ottimista. Fino a pochi anni fa facevamo tanta ricerca teorica e tantissime pubblicazioni, poco utili per l’impresa. Oggi gli atenei dialogano con l’economia reale. Viviamo l’epoca della open innovation».

Perché si investe così poco?

«Perché non riusciamo a fare sistema, anzi perlopiù resiste la logica del dispetto e della competizione. Un peccato: vedo una città popolata di studenti che potrebbero diventare la borghesia produttiva di domani. Dobbiamo essere più appetibili per i talenti. Oggi sono i talenti che scelgono le imprese e non viceversa. I giovani sono ricchi di idee e di valori. Ma a Torino c’è ancora da parte di alcuni una inclinazione al piagnisteo, al lamento, al ricordo nostalgico di un passato industriale di massa».

Yoga in ufficio e sale decorate con opere d’arte. Così si combatte il karma negativo?

«Non siamo mica Google. Ma una delle nostre caratteristiche è certamente di essere “a Great Place to Work”. Le nostre risorse, insieme ai clienti, sono il vero capitale. Tra i nostri fiori all’occhiello c’è la collezione d’arte corporate curata da Elena Re. Dopo Parigi e Milano stiamo lavorando a progetti per le nuove sedi di Madrid e Nantes. Ci aiuta a comunicare all’estero il nostro lavoro e soprattutto a vivere meglio l’ufficio. Oltre ai Summer camp per i ragazzi, durante il lockdown abbiamo organizzato break di yoga e mindfulness online due volte al giorno per tutti, anche per i figli dei collaboratori».