Intervento di Enrica Acuto Jacobacci in occasione della tavola di rotonda di apertura de “Il Rosso e il Blu Festival

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’inaugurazione di Bergamo e Brescia come Capitale della Cultura del 2023, ha elogiato le due città per la loro capacità di superare le difficoltà: innovare, guardare al futuro, confidare nella capacità dell’uomo di saper superare gli ostacoli, dando vita ad un percorso che le premia oggi come Capitale della Cultura (e mi piace l’utilizzo del singolare, segno di una volontà di superare i campanilismi tipicamente italiani, abbandonando l’io per diventare un noi singolare plurale), a tre anni dalla prima ondata della pandemia di Covid-19.

Un momento di bellezza necessario, dopo la drammatica esperienza della pandemia di Covid-19.

Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023 è la testimonianza di una possibile rinascita basata sulla cultura come elemento centrale per la formazione civile, la creazione delle competenze, il lavoro e la coesione sociale ed economica.

In questi territori si trovano idee imprenditoriali innovative, concretezza e pragmatismo, attenzione alla qualità, alla ricerca e ai dettagli, cultura organizzativa che non trascura il welfare e la cura per le comunità, il territorio e l’ambiente. Qui ci sono imprenditori illuminati, come quello che ha voluto e realizzato questo luogo straordinario, dove si incontrano saperi diversi e si valorizza il capitale umano.

Territori che hanno saputo creare le condizioni affinché tutti possano sviluppare i propri talenti e meriti, investendo su quello che oggi davvero ha un valore, ovvero il capitale intellettuale del nostro Paese.

E quando parliamo di capitale intellettuale, iniziamo ad introdurre uno dei temi del nostro incontro di oggi per spostarci dal tangibile a qualcosa di meno evidente, ma non meno importante.

Il lavoro sta cambiando valore

Oggi i tempi sono cambiati, e a differenza di una volta i colloqui non finiscono più con “le faremo sapere” detto dall’intervistatore, ma piuttosto dell’intervistato...

Se i giovani ai colloqui chiedono di lavorare da remoto, se avere i weekend liberi diventa dirimente, se la consapevolezza di essere parte di un’impresa in cui le sfide imposte dalla sostenibilità deve essere priorità strategica per accettare un impiego significa che il lavoro sta cambiando valore.

Con il crescere della qualità formativa dei giovani sale il livello delle aspettative e quindi il lavoro deve essere un “bel lavoro”.

Deve avere, ad esempio, una rilevanza sociale riscontrabile, deve garantire una qualità nel prodotto, nel modo per realizzarlo e nell’impatto che ha sul mercato, deve farsi carico di una flessibilità positiva che diventi paradigma per la conciliazione del tempo di vita e del tempo di lavoro.

E ancora, il lavoro deve essere svolto in contesti inclusivi e aperti e deve accrescere le competenze e il sapere. Deve facilitare l’apporto creativo di tutti i dipendenti, anche quelli che svolgono le mansioni più ripetitive e tradizionali. Quelli che un giorno potrebbero essere sostituiti dalle macchine e proprio per questo devono far crescere le proprie competenze. Deve garantire politiche salariali corrette, dove siano calibrati, in modo innovativo, i valori tradizionali di lealtà, trasparenza, accettazione e flessibilità.

Insomma dare a tutti la possibilità di avere un “bel lavoro”, un lavoro che non solo permetta di vivere la propria vita in sicurezza e salute, ma che offra le soddisfazioni, le gratificazioni e la qualità della vita che costituiscono oggi le giuste aspirazioni di ogni persona a perseguire i propri sogni. Ma se guardiamo al tasso di occupazione diffuso dall’Istat che è al 60,5% (in crescita, ma sempre otto punti meno della media Ue e con la Sicilia ultima regione in Europa al 41%), la sfida diventa davvero ardua.

Di quelle così impossibili che val la pena di accettare, quasi quanto la sfida ad essere felici.

Ma questa sfida all’innovazione sostenibile come la vinciamo? 

A volte i dati ci portano ad un quadro sconfortante...

Questo è un territorio sano, dove si punta ad un’educazione di qualità. E non è un caso se come Jacobacci abbiamo partnership con le Università di Bergamo e Brescia, e molti tra i nostri giovani talenti provengono da questo territorio.

Purtroppo non è così nel resto d’Italia. Perché l’Italia oggi investe poco in istruzione, con una spesa per alunno di poco più di 7mila dollari, a fronte di una ricchezza per abitante di 36mila dollari. Ci sono Paesi che investono molto di più nell’educazione primaria e secondaria, come la Norvegia, che è prima in classifica con 15mila dollari per alunno (e un reddito pro capite di 70mila dollari).

Ma perché queste classifiche sono importanti? Perché ci dicono che più un Paese investe in istruzione, più tende ad avere un reddito più alto per abitante (tenendo conto del diverso costo della vita). E viceversa se investe poco. E questo effetto è sempre più forte perché il contenuto tecnologico dell'economia è sempre più decisivo in questa epoca. E su questo i nostri indicatori ci dicono che in Italia non siamo abbastanza innovativi e non depositiamo abbastanza brevetti nei settori strategici e votati al futuro

C’è anche un altro dato che mi preoccupa: pensiamo ai fondi europei dedicati alla cultura nel cosiddetto PNRR. Ci sarebbero tante opportunità da cogliere, visto che l’Italia ha un patrimonio culturale enorme e riconosciuto a livello mondiale. Ma l’Istat ci dice anche che quasi il 30% degli italiani (sopra i 6 anni) non ha MAI usufruito di NESSUN servizio culturale e creativo (dai musei ai concerti, dal cinema ai libri). O che l’Italia è solo 20esima in Europa per la percentuale (2,7%) di occupati nel settore della cultura. Allora

Un altro motivo per cui dovremmo investire nella cultura è che si tratta di un settore che crea occupazione e ricchezza. L’Italia è solo 20esima in Europa per la percentuale (2,7%) di occupati nel settore della cultura. Ma nei prossimi anni ci sarà bisogno di circa 100 mila nuovi lavoratori per la cultura e lo spettacolo. E non si tratta dii laureati STEM, quindi in materie scientifiche, ma anche umanistiche… Perché la cultura è un grande motore economico: un rapporto Symbola del 2017 mostra che per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori.

Quindi agire sul tema “lavoro”, con una visione sostenibile sia progettuale che gestionale, potrebbe essere una strategia vincente per ottenere più fondi europei e superare le reticenze della Commissione Europea.

Il valore del brand

Guardiamo anche un altro indice che mi sta particolarmente a cuore: la classifica dei primi 100 brand mondiali fatta da Interbrand. Si tratta di un aspetto che mi interessa molto, perché credo che i brand siano una leva strategica per creare valore e competitività.

In classifica, troviamo solo tre marchi a rappresentare l’Italia: Gucci, Ferrari e Prada.

Gucci, in trentesima posizione, non è più un marchio gestito in Italia, anzi grazie alla gestione francese presenta un incremento del 23% rispetto all’anno scorso (salendo di 3 gradini) con un valore del brand di 20,417 miliardi di US$.

Ferrari è in 75ma posizione, con un valore di 9,365 miliardi di dollari e un aumento del 31%. Prada è in 89ma posizione, con un valore di 6,548 miliardi di dollari e una crescita di 5 posizioni. Sono performance ottime, ma non potremmo fare molto di più? Io credo di sì, se prestassimo più attenzione agli aspetti intangibili che fanno la differenza tra i brand.

Ottime performance, ma non potremmo fare molto di più? Io credo di sì, se prestassimo maggiore attenzione proprio agli aspetti intangibili potremmo dare più valore ai nostri brand.

Il valore dei brand è sempre più importante per il successo economico

Per la prima volta nel 2022, il valore medio di un Best Global Brand ha superato i 3 trilioni di dollari. Il valore totale dei primi 100 brand ha raggiunto i 3.088.930 milioni di dollari, con un aumento del 16% rispetto al 2021. Quest’anno abbiamo assistito alla crescita più rapida mai registrata del valore dei brand, che dimostra quanto il brand sia fondamentale per guidare la scelta, la fedeltà e i margini dei clienti. Mentre i mercati finanziari hanno avuto alti e bassi negli ultimi anni, il valore dei brand più forti del mondo è costantemente aumentato.

In definitiva, queste organizzazioni stanno costruendo attività attorno al proprio marchio (in contrasto con l'approccio tradizionale di costruire un marchio attorno a un prodotto) e questo le distingue da tutte le altre.

Cultura e Made in Italy come valori intangibili

Questo vale anche per il mondo della cultura. Alcuni musei si comportano come veri e propri brand globali, come il Louvre, il Guggenheim e altri. Per esempio, quando ad Abu Dhabi hanno creato un’isola dei musei, questi sono stati i primi a installarsi. Anche in Italia il mondo della cultura si è profondamente modificato, passando da una logica di tutela a una logica di valorizzazione, un po’ come facciamo noi con la proprietà intellettuale.

Per essere sostenibili nel futuro, abbiamo bisogno di risorse capaci di lavorare in modo sofisticato su questi aspetti, creando un grande capitale intellettuale e manageriale, capace di innovare e di portarci ai vertici delle classifiche.

Ma se i dati non sono così brillanti, vediamo cosa c’è dietro al successo del “Made in Italy”, che non è solo una etichetta che il mondo apprezza e acquista, ma rappresenta un universo fatto di tanti elementi: dettagli, capacità artigianali e manifatturiere, idee, creatività, bellezza, quella grande bellezza a volte un po’ decadente che è tipicamente nostra… gusto, ricercatezza, storia, sapori unici e diversi tra loro…troppi per elencarli tutti.

Questi sono alcuni degli ingredienti del successo delle imprese italiane che sono nate nel triangolo industriale e poi cresciute attraverso i cento e più distretti manifatturieri del nostro Paese. Queste imprese hanno fatto sì che l’Italia si posizionasse al settimo posto nel mondo per reputation tra i consumatori mondiali.

Ma essere al settimo posto è un buon risultato o no?

La reputation basta a salvare i conti ?

Possiamo ambire a fare di più?

Io credo proprio di sì, e questo territorio dimostra con i fatti che raccogliere la sfida e vincerla è fattibile!

Perché i territori sono fondamentali per attrarre e trattenere i talenti. I territori devono offrire non solo opportunità lavorative, ma anche culturali e ricreative, perché le nuove generazioni, soprattutto dopo la pandemia, pongono una maggiore attenzione al work-life balance. La stessa cosa che da sempre cerchiamo noi donne, che da sempre conciliamo il ruolo pubblico lavorativo con quello privato di cura (che oggi riguarda spesso più i genitori anziani che i figli).

Il capitalismo italiano, spesso basato su imprese familiari di piccole, medie e grandi dimensioni, ha saputo valorizzare le competenze e il benessere in azienda, senza seguire la logica finanziaria che ha guidato il management anglosassone.

Il bello e ben fatto rappresentano la meravigliosa varietà della geografia e della cultura della nostra penisola. I fattori che rendono vincente il prodotto italiano nel mondo sono legati a componenti immateriali difficilmente esprimibili.

Territori unici che in dimensioni ridotte, come sono le nostre città di provincia, contengono tutto: arte, musei, teatri, chiese, come nessun altro paese al mondo. E Bergamo e Brescia ne sono un esempio straordinario: città uniche che si aprono alla cultura e all’arte, aspetti che uniscono e permettono di avere una dimensione transterritoriale

Una diversity immensa, un patrimonio difficile da tutelare e valorizzare. Eppure è proprio questo patrimonio, questo saper fare che si basa su elementi immateriali, ma che sono il frutto di una quotidiana esposizione a stimoli di vario genere, che ci rende unici e inimitabili (o almeno speriamo). E questi elementi così unici meritano tutela e valorizzazione. Ci sono tecniche per farlo, anche se non perfette, che possono contribuire a rendere questi elementi, che sembrano quasi impalpabili, il vero capitale su cui creare sviluppo sostenibile.

Ma oggi queste attività, che prima erano legate alla geniale intuizione di grandi imprenditori, alle capacità artigianali uniche, alla libera iniziativa, devono rispondere a degli obblighi ben precisi che ci impone l’Europa, come la Direttiva CSRD Corporate Sustainability Reporting Directive.

CSRD Corporate Sustainability Reporting Directive

Si tratta di una direttiva che impone alle imprese di grandi dimensioni di rendicontare i loro impatti ambientali, sociali e di governance

Obiettivo della CSRD è quello di aumentare la trasparenza in materia ambientale, sociale e di governance, e rafforzare l'impronta sostenibile dell'economia e del mercato europeo.

Ad oggi, questo obbligo riguarda solo le società quotate e gli enti pubblici. Ma dal 1° gennaio 2026, riguarderà tutte le imprese con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore ai 50 milioni di euro. Quindi moltissime imprese, anche quelle come la nostra che devono la loro crescita anche a questo territorio. E qui io voglio fare una testimonianza concreta: come Jacobacci abbiamo aperto una sede a Brescia vent’anni fa - festeggiamo proprio quest’anno - e a Bergamo poco dopo. Ebbene, in tutti i nostri report i dati sono stati sempre positivi e in crescita, spesso a due cifre. E questo mi fa apprezzare enormemente questi territori e le loro persone.

Per semplificare al massimo il concetto della CSRD, possiamo dire che la sostenibilità si basa su quattro pilastri: ambientale, sociale, economico ed etico. Ma come li misuriamo? Come rendiamo concreti questi concetti? 

Il rapporto con il prodotto e la trasformazione industriale rimangono un elemento distintivo nella gestione delle imprese, ma non più sufficiente.

Vorrei concludere con un messaggio rivolto alla splendida platea di giovani che sono qui oggi: abbiamo bisogno di voi!

Perché occorrono nuove sensibilità, le vostre, e nuovi bisogni che ci spingano a lavorare in modo più sostenibile, più attento alle nuove fragilità sociali e ambientali. E voi giovani potete essere il motore di queste innovazioni. Io ho la fortuna di vederlo da anni, come giudice in vari contesti dedicati alle start-up che nascono da idee forti, anzi da ideali, volti a migliorare la qualità della vita sul nostro pianeta.

Ecco, oggi noi siamo qui per portarvi un esempio, per dialogare con voi e per condividere con voi ciò che sappiamo. Affinché possiate prendere il testimone e correre insieme una gara, accettare una sfida e dimostrare che grazie alle nostre caratteristiche uniche, fatte di cultura in senso ampio e di cultura d’impresa, abbiamo ancora molto da dare.

Stiamo parlando degli intangibles e ne parliamo  con due amiche, rappresentanti del mondo imprenditoriale - la dottoressa Cristina Bombassei, Chief CSR Officer di Brembo -  e del mondo delle istituzioni e della cultura - l’avv Francesca Bazoli, Presidente Brescia Musei, volgendo loro alcune domande. 

  1. Quali sono gli aspetti legati agli intangible su cui fate leva per attrarre i giovani? Sia nel  mondo della cultura che in quello dell’impresa 
  2. In che modo investite e innovate all’interno della vostra realtà e del vostro territorio, e a quali mezzi, strumenti, idee vi affidate per capitalizzare sugli intangibili?
  3. Come misurate o provate a misurare gli investimenti in intangibles e come riuscite a influenzare la performance della vostra organizzazione?