Il problema ambientale e la risposta dell’UE 

Negli ultimi anni il mondo della moda non è andato esente da severe critiche per l’impatto ambientale dei suoi cicli produttivi e della sua catena distributiva. Queste accuse non sono totalmente prive di ragioni e di basi scientifiche: il Parlamento Europeo stima che il 10 % delle emissioni di anidride carbonica a livello globale provengano dall’industria della moda e queste, curiosamente, superano quelle dovute al trasporto aereo e marittimo, che insieme si aggirano intorno al 7 %. Anche le cifre pro-capite sono preoccupanti: in media ciascuno di noi ogni anno genera 270 kg di CO2 effettuando l'acquisto di nuovi prodotti tessili e scarta circa 11 Kg di vestiti usati, di cui l’87 % viene incenerito o seppellito nelle discariche. Tirando le somme solo l’1 % degli indumenti dismessi viene effettivamente riciclato e trasformato in nuovi capi d’abbigliamento. 

Per far fronte a questa problematica, già nel lontano 1992 l’Unione Europea aveva introdotto  l’etichetta verde “EU ECOLABEL” che può essere apposta sui prodotti solo da parte dalle imprese che mantengono le proprie emissioni idriche e aeree di sostanze contaminanti entro determinati quantitativi. Tuttavia, nel frattempo, il problema dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico si è aggravato, per cui lo scorso marzo, il Parlamento Europeo ha presentato delle proposte di modifica alle norme sulla gestione dei rifiuti tessili, con le quali si estendono i sistemi di responsabilità delle imprese manifatturiere, che in un futuro non troppo lontano dovranno coprire i costi per la raccolta, lo smistamento e il riciclo dei prodotti tessili. Gli Eurodeputati stanno facendo pressione affinché, una volta che la Direttiva sarà stata adottata a livello di UE, gli Stati Membri abbiano solo 18 mesi per il recepimento della normativa, anziché i 30 mesi inizialmente ipotizzati. 

L’upcycling è il nuovo recycling 

Sullo sfondo della crescita esponenziale del mercato tessile-abbigliamento, si staglia una piccola controrivoluzione chiamata “upcycling”. Questo movimento è capitanato dagli stilisti che, per spirito creativo e per amore dell’ambiente, hanno pensato ad un nuovo modo di recuperare gli articoli di abbigliamento di seconda mano. L’idea è quella trasformare capi datati e usurati in nuovi indumenti o accessori, e ciò viene fatto ritagliando, ricucendo e decorando i prodotti originari. L’upcycling non deve essere confuso con il recycling (ovvero, il riciclo), perché il suo scopo è quello di dare una nuova vita al prodotto usato, ammodernando ove necessario e mantenendo le forme originarie ove possibile. In questo modo la personalità e la linea del pezzo passato traspare anche nel nuovo articolo. Al contrario, il recycling di norma prevede la regressione dell’oggetto usato allo stato di materiale grezzo, che poi viene trasformato in un prodotto del tutto diverso e senza che ci sia una  necessaria connessione con l’articolo da cui la materia prima è stata estratta. 

Un esempio eccellente di questa recente tendenza creativa è la collezione 2020 “Upcycled by Miu Miu: un assortimento millesimato di capi d’annata no brand riqualificati dalla nota maison meneghina in chiave inequivocabilmente pradiana. Fogge sontuose, silhouette disciplinate, pieghe trigonometriche e rettilinei di preziosi distillano lo stile della casa milanese. La collezione è stata realizzata tramite l’affinamento di una selezione di pezzi vintage elitari ed iconici, creando così una storiografia illustrata della moda del ventesimo secolo, rivista attraverso la lente dell’attualità. Miu Miu ha saputo creare l’illusione della donna contemporanea che viaggia nel tempo su una linea temporale lunga un lustro, dagli anni 30 agli anni 80 del 1900. 

Il principio di esaurimento del marchio 

L’idea dell’upcycling sta avendo un certo successo anche nel mondo della moda prêt-à-porter e questo perché permette ai consumatori di avere dei prodotti unici – in effetti, difficilmente esistono due pezzi identici – ed inediti, che al tempo stesso hanno un costo relativamente contenuto e portano un marchio di tendenza. Il problema però sorge quando il marchio del capo originale rimane visibile sull’articolo rivisitato: è corretto che il marchio altrui venga incorporato in un prodotto che nella sua nuova conformazione ha una paternità diversa? Da una parte ci sono le case di moda che hanno creato i prodotti originali, le quali sostengono che questo è un atto di concorrenza sleale. Dall’altra ci sono gli upcyclists che, invece, rivendicano la loro prerogativa di poter utilizzare qualsivoglia componente - anche quelle marchiate - del prodotto originale, sul quale le case di moda non avrebbero più alcun diritto residuo. 

Nel nostro Paese di norma i diritti attribuiti al titolare di un marchio registrato cessano una volta che – con il suo consenso - è stata effettuata la prima vendita dei prodotti marchiati, dopo la quale gli articoli firmati immessi sul mercato possono circolare liberamente in tutto lo Stato e nello Spazio economico europeo. Prendendo ad esempio l’industria della moda, il cosiddetto principio di esaurimento prevede che la casa produttrice non possa fermare la rivendita dei capi di seconda mano, posto che siano originali e che all’epoca della prima vendita fossero stati immessi legittimamente nel commercio. Un’altra conseguenza diretta di questo principio è il fatto che i produttori non possono nemmeno avanzare la pretesa di guadagnare ulteriormente su tali successivi passaggi di proprietà del prodotto marchiato. 

Le eccezioni alla regola 

D’altro canto, il nostro ordinamento prevede delle eccezioni alla regola: il codice della proprietà industriale contempla alcune circostanze particolari in presenza delle quali il titolare del marchio registrato, ovvero il produttore del capo d’abbigliamento originale, può impedire l’ulteriore rivendita dell’indumento. In particolare, un’azione di contrasto diventa possibile quando lo stato del prodotto originale è stato modificato o alterato dopo la sua immissione nel commercio.  

La ratio di questa norma deve essere ricercata nel fatto che un prodotto ampiamente modificato spesso non rispecchia più la filosofia e l’intenzione del suo primo produttore. In questo contesto, non è corretto che rimanga visibile su di esso il marchio originario, perché l’articolo effettivamente non è più conforme all'archetipo del prodotto iniziale. Non a caso Miu Miu per la sua collezione “Upcycled by Miu Miu” ha scelto dei pezzi evidentemente esclusivi ed eccezionali, ma di origine ignota. 

Questa regola in linea di massima si può applicare anche al fenomeno dell’upcycling, che può rientrare nella fattispecie descritta se il prodotto modificato mantiene il marchio originario. In tale situazione, il consumatore potrebbe essere indotto a ritenere che si tratti di una linea nuova o rivisitata pensata dalla casa di moda originaria (ad esempio, una capsule edition che rievoca alcuni capi storici del brand). In questo modo, lo stilista upcyclist si può avvantaggiare indebitamente della forza del marchio altrui, che ha una reputazione costruita nel tempo tramite gli investimenti in attività promozionali del titolare. 

Sostenibilità ma nel rispetto dei diritti altrui 

L’idea della sostenibilità intrinseca al procedimento creativo e produttivo dell’upcycling è senz’altro affascinante, se realizzata con serietà e ragionevolezza. Gli stilisti devono sempre tener presente che l’articolo così creato, se ostenta ancora la sua provenienza imprenditoriale originaria, può ledere i diritti del suo primo produttore. Quest’ultimo, infatti, normalmente non ha nulla a che fare con l’ulteriore elaborazione del prodotto e può addirittura subire dei danni reputazionali, se l’articolo finale è di scarsa qualità. 

 

Articolo di Luca Mariani per Technofashion