Moda e vino vanno a braccetto. Sempre più spesso i patron delle case di moda italiane si avventurano nel settore vitivinicolo diversificando il loro portafoglio. Così è successo, ad esempio, con Brunello Cucinelli, che produce il vino Castello di Solomeo in una cantina tanto elegante quanto le sue collezioni di cachemire. Un altro nome conosciuto che sta percorrendo questa strada è quello di Sandro Veronesi, fondatore del Gruppo Calzedonia, che – oltre ad aver costruito in pochi anni un impero enogastronomico dal nome “SIGNORVINO” – è anche proprietario di alcuni vigneti, tra i quali una cantina denominata “La Giuva”, situata nelle colline a nord di Verona.

Punti d’incontro tra tessile ed enologia

Che cosa unisce questi due segmenti di mercato all’apparenza tanto diversi? Senza dubbio si tratta di due eccellenze del territorio italiano, ma le analogie non si fermano qui. In primis, le affinità tra moda e vino sono spesso messe a frutto per creare collaborazioni con finalità pubblicitaria e promozionale, con reciproco beneficio in termini di visibilità e coinvolgimento della clientela – nonché, indirettamente di espansione delle quote di mercato.

Proseguendo, un aspetto fondamentale che accomuna questi due settori è l’effluvio del lusso. L’alta moda e il vino pregiato hanno un posizionamento di mercato simile e si rivolgono allo stesso bacino di clienti. Un altro motivo di attrazione tra i due settori è quello estetico: il fattore visivo è un attributo imprescindibile del vestiario di tendenza, così come un calice di vino – servito in un certo modo e in un certo contesto – può trasmettere la sensazione di uno stile di vita affascinante e altolocato. D’altro canto, come afferma l’antropologo René Girard teorizzando la “triangolazione del desiderio”, i consumatori non desiderano tanto il prodotto in sé stesso, quanto piuttosto il sentimento di ammirazione – anche se alcuni la chiamerebbero “invidia” – che tale prodotto suscita nelle altre persone e ciò è diventato ancora più evidente con l’ascesa dei social media.

Sempre a tal proposito, gli studi di Jean-Noël Kapferer, esperto in materia di luxury marketing, statuiscono che la percezione del lusso si realizza quando i prodotti vengono percepiti come esclusivi, rari e difficilmente accessibili. I brand di lusso devono, prima di tutto, mantenere un certo livello qualitativo (che conferisce valore intrinseco al prodotto), posizionarsi in una fascia di prezzo elevato, e applicare una limitazione consapevole dei volumi e dei punti vendita. Tuttavia, tutto questo potrebbe non essere sufficiente. La nomea del lusso si crea nutrendo il pubblico con un’affabulazione di epiche origini, tecniche produttive ataviche e patrimonio storico; caratteristiche che – per loro fortuna – abbondano nel caso delle imprese italiane e, in generale, europee che operano nella moda e nell’enologia.

Il mercato del lusso in cifre

I beni di lusso svolgono la funzione di rappresentare il gusto e la posizione sociale dei loro proprietari. In prima posizione tra questi prodotti elitari troviamo gli ornamenti per il corpo, quali gioielli, orologi, capi d’abbigliamento, calzature e accessori in pelle, occhiali da vista e da sole, ma non solo. Oggi tra gli status symbols più ambiti ci sono anche le auto di lusso e, ultima ma non per importanza, l’enogastronomia d’eccellenza.

Secondo Statista, piattaforma globale di dati e business intelligence, nel 2024 il mercato dei beni di lusso a livello globale genererà un fatturato di 368,90 miliardi di dollari. Si prevede, inoltre, che questo mercato crescerà a un tasso annuo del 3,22%; e ciò accadrà nonostante l’instabilità politico-economica innescata dai conflitti russo-ucraino e di Gaza, nonché l’antagonismo crescente tra Stati Uniti e Cina. Proprio la ripresa della domanda in questi ultimi due territori, insieme al crescente predominio dei Millennials e della Generazione Z, nonché alla potenza trainante dei canali di vendita on-line, sta portando ad un forte rilancio del mercato del lusso, che in base alle più recenti previsioni continuerà anche nel medio-lungo termine.

L’Asia sarà il continente che presumibilmente occuperà la quota più elevata in termini di consumi dei prodotti di lusso, seguita al secondo posto dall’Europa e al terzo dall’America settentrionale. Se invece si considerano i produttori dei beni di lusso, le maggiori aziende sono di nazionalità europea e, tra queste, spiccano le francesi e le italiane che occupano le posizioni più alte della classifica. Secondo la piattaforma finanziaria Quartr, tra le aziende luxury più quotate si contano: LVMH (alias Moët Hennessy Louis Vuitton), Hermès, Richemont, Ferrari, Kering, Moncler, Prada e Brunello Cucinelli.

Non si può negare che l’industria della moda incarna perfettamente il patrimonio culturale e manifatturiero del vecchio continente. La Commissione Europea afferma che nella catena produttiva di questo settore sono occupate approssimativamente 5 milioni di persone, mentre oltre 1 milione risulta impiegato specificamente nell’industria del lusso. Si comprende, quindi, come queste attività forniscano un contributo determinante all’economia dell’UE.

E il settore vitivinicolo non è da meno. Secondo i dati pubblicati nel luglio 2023 dal Servizio Ricerca del Parlamento Europeo (EPRS), l'Unione Europea è di gran lunga il più grande produttore, consumatore ed esportatore di vino a livello globale. Nel vecchio continente si concentra la metà della produzione mondiale, con tre attori principali: Italia, Francia e Spagna. Appare curioso – eppure non stentiamo a crederci – il fatto che, nell’ultimo anno e in tutto il mondo, solo gli Stati Uniti hanno consumato più vino di uno qualsiasi di questi tre Paesi

Un nome un programma: LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton

Quando si parla di lusso, il primo nome che viene è quello del gruppo francese LVMH, attualmente diretto da Bernard Arnault – che tra l’altro si classificava come l’uomo più ricco del Mondo nel 2023 (secondo Forbes). Colpisce di questa multinazionale il fatto che già nella denominazione rappresenta la fusione del mondo della moda e quello del vino: da una parte c’è Louis Vuitton (in breve, LV), brand storico della pelletteria e dell’abbigliamento, e dall’altra, Moët Hennessy (ossia, MH), un colosso nel settore delle bevande alcoliche. Per inciso, MH nasceva nel 1971 dalla fusione di due cantine storiche, le cui origini risalgono al diciottesimo secolo, ovvero: Moët & Chandon, produttore di champagne, e Hennessy, il produttore di cognac. In termini di ricavi, senza dubbio la divisione moda e pelletteria fa da traino dell’intero gruppo con una quota del 37%, tuttavia anche il dipartimento vini e liquori si difende bene, rappresentando il 16% del fatturato.

Il curioso caso di Veuve Cliquot

Tra i brand del settore vitivinicolo LVMH possiede anche “Veuve Clicquot Ponsardin”, una casa produttrice di champagne risalente al 1772 e avente sede nella città di Reims – acquistata da Louis Vuitton nel 1986, poi inglobata nel Gruppo LVMH nell’anno seguente. Negli ultimi anni la celebre etichetta arancione che caratterizza i prodotti di questa azienda è stata oggetto di una curiosa disputa legale, che ha visto contrapporsi la tedesca Lidl Stiftung Co. & KG (società leader nel settore della grande distribuzione) e la francese MHCS (Moët Hennessy Champagne & Services), società satellite di Louis Vuitton.

Dopo aver incassato due precedenti sconfitte, nel 2015 Lidl, desiderosa di poter utilizzare delle etichette arancioni per le proprie linee di vino, presentava una terza azione di cancellazione nel tentativo – poi riuscito – di ottenere la rimozione di una registrazione di marchio dell’Unione Europea del 1998 consistente in un rettangolo arancione e tutelata per “vini della Champagne” (Classe 33) appartenente a MHCS.

Il marchio contestato consiste in un semplice rettangolo colorato – sprovvisto di ulteriori scritte o disegni – e, proprio a causa della sua estrema semplicità, risulta privo di carattere distintivo intrinseco, cioè del livello di originalità necessario per ottenere o conservare la sua registrazione. Per questo, la linea difensiva principale della maison francese si concentrava sul fatto che il marchio avesse acquisito capacità distintiva tramite il suo impiego prolungato, costante e diffuso nel mercato dell’Unione Europea. D’altro canto, nel caso dei marchi dell’UE, questa strategia presuppone il dimostrare che il pubblico effettivamente riconosce la distintività del marchio d’impresa in tutti i Paesi Membri dell’Unione Europea – e qui sta l’inghippo che ha demolito la resistenza del colosso francese.

Il materiale documentale prodotto da MHCS ricostruiva il patrimonio storico ricco e prestigioso dei vini Champagne Veuve Clicquot, nonché gli sforzi imprenditoriali e gli investimenti economici attuati per conquistare e mantenere la significativa quota di mercato detenuta dal marchio in questione nella maggior parte degli Stati Membri; tuttavia, secondo il Giudice, l’impianto probatorio non è stato strutturato in modo da coprire proprio tutti e 27 i Paesi UE. Il Tribunale, infatti, ha rinvenuto delle lacune in merito ad alcune aree geografiche minori, ovvero Grecia e Portogallo.

La maison francese ha sostenuto che la celebre etichetta arancione è stata utilizzata sin dal 1877 e che, tuttora, attira subito l'attenzione del consumatore quando occhieggia dagli scaffali delle enoteche, dei negozi, dei bar o dei ristoranti, grazie alla sua cromia vivace ed altamente riconoscibile. Per non far mancare nulla, sono state prodotte anche due dichiarazioni risalenti al 2003 e al 2014 del Comité interprofessionnel du vin de Champagne (CIVC), ovvero l’associazione professionale che raggruppa le cantine dell’omonima regione, nelle quali si affermava che il titolare del marchio contestato era l'unico produttore di champagne ad utilizzare quella specifica tonalità di arancione nell’etichetta.

La decisione del tribunale dell’UE

Malgrado gli sforzi profusi da MHCS, il Giudice ha concluso che le prove relative alla Grecia e al Portogallo non costituiscono una prova diretta del carattere distintivo acquisito del marchio contestato e non sono idonee a dimostrare che il pubblico di riferimento lo percepisca come un'indicazione dell'origine commerciale in tali territori.

Pertanto, lo scorso marzo il Tribunale dell’Unione Europea si è pronunciato annullando la precedente decisione della Commissione di Ricorso dell’EUIPO, con cui era stato riconosciuto il carattere distintivo acquisito tramite l’uso e la validità del marchio in questione – e, di conseguenza, ha condannato quest’ultimo alla cancellazione dal Registro.

 

Articolo di Luca Mariani per Technofashion