29 settembre 2023 Technofashion Luca Mariani

Il biennio 2022 – 2023 ha spronato la transizione delle imprese sotto vari aspetti che spaziano dall’approvvigionamento energetico a quello finanziario, dal profilo comunicativo a quello identitario e socioculturale. Il mondo post-pandemico e militaristico ci ha catapultati dal mercato privo di frontiere degli ultimi 30 anni ad un nuovo sistema economico colmo di rischi geostrategici. 

Divulgazione e trasparenza sono principi che in azienda si applicano non solo sul piano finanziario, ma anche sotto il profilo della performance ambientale, sociale e corporativa – che oggi viene riassunta con la sigla ESG (Environmental, social and corporate governance). Esistono delle agenzie di ESG rating che misurano - principalmente tramite l’acquisizione e l’elaborazione di dati di pubblico dominio - l’impatto che le aziende hanno sull’ecosistema, sulla società, sulle comunità locali, nonché sulla vita dei lavoratori e delle loro famiglie.

Oltre all’indice ESG, le realtà imprenditoriali smart si dedicano anche e soprattutto alla narrativa dei nuovi mezzi comunicativi (specialmente a quella dei social networks) per influenzare la scelta dei loro clienti e investitori. Le imprese che si dimostrano impegnate a minimizzare o neutralizzare il proprio impatto ambientale collezionano più facilmente risorse e apprezzamento nel pubblico, particolarmente nei millennials (nati tra il 1981 e il 1996) che sono orientati verso le alternative sostenibili.

Tuttavia, per fare una scelta consapevole al momento dell’acquisto, occorre ineluttabilmente un certo grado di approfondimento. Ad esempio, non tutti conoscono il significato delle cosiddette rivendicazioni verdi – in inglese, green claims – che ricorrono sempre più frequentemente nella comunicazione aziendale. Tra le più ricorrenti troviamo le due espressioni carbon neutrality e carbon offsetting, che i consumatori tendono a ritenere equivalenti mentre esprimono due concetti diversi.

L’obiettivo di carbon neutrality si concretizza nell’impegno dell’impresa a parificare le quantità di gas serra emesse con quelle riassorbite. Il riassorbimento dell’ossido di carbonio dall’atmosfera – in gergo carbon sequestration – si realizza promuovendo lo sviluppo di ecosistemi che naturalmente catturano la CO2: ad esempio, tramite il sostegno economico a progetti di piantumazione o riforestazione.

L’iniziativa di carbon offsetting prevede invece che l’azienda coinvolta compensi le proprie emissioni di CO2, generate in un determinato settore antropico, con iniziative finalizzate a ridurre l’inquinamento atmosferico in un diverso ambito produttivo. Questo traguardo può essere raggiunto attraverso l’investimento nelle energie rinnovabili, nell’efficientamento energetico oppure in altri sistemi tecnologici con livelli contenuti di emissioni di carbonio.

D’altro canto, non tutti gli operatori del mercato sono irreprensibili nel pubblicizzare le informazioni relative alla propria impronta verde che, se usate in modo improprio, possono avvantaggiare ingiustificatamente alcune imprese a scapito di altre. Il rischio in questi casi è di scivolare nel green washing, ovvero in una forma scorretta di marketing per cui si veicola il messaggio che i prodotti, gli obiettivi e le politiche di un'organizzazione sono rispettosi dell'ambiente, quando invece non è così.

Sempre più spesso le aziende, infatti, annunciano di aver intrapreso iniziative ecologiche, corredate da indicazioni generiche e interpretabili su come i loro prodotti o servizi siano sostenibili. Il rischio è che la vaghezza delle affermazioni possa indurre il consumatore in errore, convincendolo a preferire un articolo piuttosto che un altro sulla base di asserite qualità, che in realtà corrispondono solo parzialmente o per nulla al vero.

A tal proposito, è apprezzabile una statistica pubblicata recentemente dall’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), secondo la quale il numero di domande di registrazione di marchi composti da elementi che rimandano alla sfera concettuale dell’ecologia e della sostenibilità ha subito un aumento considerevole negli ultimi anni – passando da circa 12.000 nel 2018 e arrivando a superare quota 18.700 nel 2021.

Le imprese hanno, dunque, imparato a navigare sull’onda della crisi climatica, puntando la bussola sul potere attrattivo dei prodotti e i servizi a ridotto impatto ambientale. Tuttavia, alcune recenti decisioni in materia di marchi hanno acceso un faro sul lato oscuro della causa ambientalista e sugli azzardi che possono attirare le aziende in cattive acque, con il rischio di pescare insuccessi di una certa risonanza mediatica.

In una sua recente decisione la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha ritenuto che lo slogan “Sustainability through Quality” non potesse essere registrato come marchio dell’Unione Europea in relazione ai prodotti delle classi 7 (motori), 9 (software per computer) e 16 (stampati e articoli di cartoleria). Il rigetto è stato motivato sulla base dell’assenza di carattere distintivo e dei requisiti che permettono agli slogan di qualificarsi come veri e propri marchi.

Gli slogan sono esclusi dalla registrazione quando il pubblico li avverte come frasi banali, con mera finalità pubblicitaria. All'opposto, possono accedere alla tutela come marchi d’impresa se il consumatore medio riesce a creare un nesso tra la formula promozionale e l’origine imprenditoriale dei prodotti o servizi in questione. Tipicamente uno slogan diventa distintivo quando contiene un gioco linguistico, un doppio senso, un enigma, un elemento imprevisto, una formula che induce il lettore ad uno sforzo interpretativo oppure delle figure retoriche.

Nel caso di specie la Corte di Giustizia ha confermato che lo slogan “Sustainability through Quality” è un semplice messaggio che, senza particolari giochi di parole, reclamizza il fatto che la qualità di un determinato prodotto ne determina anche la sostenibilità. Una frase che ha il mero scopo di lodare e promuovere le proprietà ecologiche di un prodotto non può qualificarsi come marchio d’impresa.

Un altro caso eclatante – che però si è risolto positivamente per la casa di moda in questione – è quello della class action promossa a carico di H&M per la sua collezione “Conscious Choice”. Gli attori sostenevano che, nonostante i suoi capi d’abbigliamento fossero realizzati con procedimenti anti-ecologici e con materiali non riciclabili, la maison sfruttasse impropriamente una formula promozionale ambientalista. Nondimeno, la corte distrettuale del Missouri, davanti la quale si è instaurato il procedimento, si è pronunciata in favore di H&M affermando che un consumatore dotato di normale ragionevolezza non interpreta “Conscious Choice” come un’indicazione della sostenibilità ambientale dei relativi prodotti.

I casi citati forniscono una lezione agli imprenditori che stanno pensando di registrare e utilizzare uno slogan o un marchio verde: la cautela è d'obbligo quando le questioni ambientali vengono introdotte nelle iniziative commerciali dell’azienda e un parere preliminare da parte di un consulente specializzato nella proprietà intellettuale può essere utile per evitare eventuali problematiche successive al deposito.

 

Articolo di Luca Mariani per Technofashion