La storicità della tradizione vitinicola italiana affonda le proprie radici nell’organizzazione tipicamente familiare del lavoro. È pertanto estremamente frequente l’utilizzo del patronimico di famiglia come segno atto a contraddistinguere l’attività sul mercato. Inoltre, eccezion fatta per le realtà più strutturate e industrializzate, è molto comune che le aziende di piccole e medie dimensioni si siano limitate ad utilizzare il patronimico come marchio o come nome aziendale, senza necessariamente chiederne la registrazione a titolo di marchio presso l’Ufficio marchi e brevetti italiano.

Sebbene la normativa rilevante riconosca una tutela al marchio di fatto in forza dell’uso del medesimo anche in assenza di registrazione, esistono dei limiti di tale tutela legati alla natura dell’uso e all’estensione territoriale dello stesso.

Dunque come viene risolto un conflitto tra due operatori che utilizzino lo stesso patronimico, avendo entrambi lo stesso cognome, per prodotti identici? Si può parlare di contraffazione e, in tal caso, prevale necessariamente chi ha registrato il proprio nome per primo?

In linea generale, la registrazione di un segno (che può consistere in o includere il proprio cognome) conferisce al titolare un diritto di privativa sul segno in questione in relazione ai prodotti per i quali la registrazione è stata concessa a livello nazionale.

Il che vuol dire che il titolare della registrazione potrà opporsi alla registrazione e all’uso successivi da parte di un altro soggetto di un segno identico o simile al proprio per i medesimi prodotti.

Tuttavia, qualora un altro operatore abbia utilizzato un segno identico o simile per gli stessi prodotti da epoca anteriore alla concessione della registrazione, il preutente conserva un diritto a continuare a utilizzare il marchio nei limiti della natura e dell’estensione territoriale dell’uso già intrapreso e il titolare della registrazione successiva non glielo potrà impedire.

Al quadro si aggiunge una specifica disposizione (articolo 8 del codice della proprietà industriale) che consente a colui che porta un determinato nome il diritto di usarlo (e non quindi di registrarlo) nella propria ditta a condizione di non ingenerare confusione nel pubblico dei consumatori e di rispettare i principi della correttezza professionale.

Appare evidente che non è sempre agevole per gli operatori orientarsi tra le varie disposizioni per comprendere come muoversi in caso di possibili interferenze tra marchi e, soprattutto, definire i limiti della “correttezza professionale” e della “possibile confusione in capo al pubblico” in un settore di mercato connotato da un uso del patronimico così diffuso rispetto ad altri.

A fare maggiore chiarezza ci viene in soccorso la giurisprudenza che, negli anni, ha elaborato una serie di interpretazioni a riguardo.

Il caso “Castella”

Uno dei principi di maggiore rilevanza è stato fissato dalla sentenza n. 2191 resa dalla Corte di Cassazione in data 4 febbraio 2016 (il caso “Castella”). La vicenda processuale vedeva contrapposta Claudia Castella - titolare dell’omonima azienda produttrice di vini contrassegnati dal marchio recante in evidenza il cognome “Castella”- contro Renzo Castella, titolare anch’egli di un’azienda vinicola con sede, al pari di quella dell’attrice, in Diano d’Alba, in provincia di Cuneo. Claudia Castella sosteneva che l’uso da parte di Renzo Castella, titolare di un’azienda produttrice degli stessi vini da lei commercializzati, del medesimo cognome “Castella” quale segno distintivo del prodotto, concretava un illecito, poiché costituiva una violazione dei diritti di esclusiva derivanti dalla registrazione del marchio suddetto.

Va specificato che il segno utilizzato da Renzo Castella, oltre a includere il nome di battesimo del titolare dell’azienda agricola, presentava un elemento figurativo consistente nel paesaggio collinare tipico della zona delle Langhe.

Secondo Claudia Castella tali elementi non potevano considerarsi sufficienti ad escludere la confusione in capo al pubblico dei consumatori, in quanto per costante e consolidata giurisprudenza nell’ambito di un segno costituito da un nome proprio e da un cognome, quest’ultimo è da considerarsi l’elemento dotato di maggiore capacità distintiva poichè capace di rimanere impresso nella memoria del pubblico. Nel caso in esame, quindi, dal momento che la coincidenza tra i segni riguardava proprio il cognome, la similitudine tra gli stessi era da considerarsi molto elevata.

Allo stesso modo, il fatto che il segno contestato includesse la rappresentazione di un paesaggio collinare non era da considerarsi elemento determinante, tenendo conto del fatto che tale porzione altro non fa che indicare ai consumatori la provenienza del vino.

Sulla base di questo ragionamento, Claudia Castella chiedeva che la Corte di Cassazione riformasse la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva accertato la mancanza di contraffazione, concludendo invece per una violazione della propria registrazione di marchio.

La Cassazione ha invece confermato la sentenza della Corte di Appello, convalidando il ragionamento seguito dal Giudice di secondo grado.

Sebbene il principio della maggiore rilevanza del cognome rispetto al nome proprio sia da considerarsi valido, la Corte ha ritenuto che nel caso concreto la contraffazione fosse da escludere anche alla luce del particolare settore merceologico dei vini. E infatti, afferma la Suprema Corte, nello specifico settore vitivinicolo è frequente la presenza di imprese, commercializzanti lo stesso prodotto, facenti capo a soggetti pressoché omonimi e che utilizzano il proprio nome come ditta o marchio. Quindi nel caso in esame, l’aggiunta del nome proprio Renzo al cognome Castella, specialmente se accompagnato da ulteriori elementi descrittivi (come, nel caso concreto, le colline langarole), è sufficiente ad escludere la confondibilità dei segni distintivi delle diverse aziende.

In altre parole, proprio la constatazione del fatto che nel settore vinicolo sia frequente la prassi di utilizzare il proprio cognome come segno distintivo dei prodotti fa sì che il pubblico sia abituato ad orientarsi nonostante fenomeni di omonimia; basta dunque un elemento di minore rilevanza come l’aggiunta del nome proprio oppure una porzione figurativa non particolarmente distintiva ad escludere che possa parlarsi di contraffazione.

La sentenza commentata sembrava aver fissato un principio cardine che rendeva di fatto ostico azionare il proprio marchio patronimico (anche se registrato) nei confronti di concorrenti che utilizzassero il medesimo patronimico in combinazione con altri elementi, ancorché secondari, di differenziazione.

Il caso “Vacca”

All’inizio di quest’anno, tuttavia, la Commissione dei Ricorsi - organo di natura sia amministrativa che giurisdizionale a cui è affidato il compito di giudice di appello nei confronti delle decisioni emesse dall’Ufficio marchi e Brevetti nei procedimenti di opposizione contro le nuove domande di marchio - ha pronunciato la sentenza n. 25/22 che sembra correggere il tiro.

Siamo sempre nelle Langhe e i marchi a confronto sono composti anche in questo caso dal patronimico dell’azienda vitivinicola che si è attivata in opposizione, il segno verbale VACCA, e dal segno figurativo per il quale l’azienda agricola Vacca Francesco & Mario di Vacca Saverio chiedeva registrazione.

La domanda di marchio figurativa posteriore presentava unitamente al patronimico VACCA il prenome SAVERIO nonché, al di sopra della porzione verbale, un elemento figurativo consistente nell’immagine di un antico giogo per animali da tiro. Anche se di norma nel giudizio di confusione le circostanze concrete relative all’uso del marchio non vengono tenute in considerazione, la specifica controversia riguarda due cantine site a pochi chilometri l’una dall’altra, e nello specifico nella zona di produzione delle uve del vino a DOCG “Barbaresco”: una micro-area che non arriva a 5.000 abitanti.

L’azienda agricola Vacca Francesco & Mario di Vacca Saverio, titolare della domanda di marchio contestata, aveva fatto leva su questa pacifica coesistenza dei segni sul mercato.

L’Ufficio Italiano brevetti e Marchi, applicando i principi sanciti dalla sentenza n. 2191/2016 della Corte di Cassazione, aveva deciso l’opposizione concludendo per l’insussistenza del rischio di confusione e ritenendo le differenze esistenti tra i segni sufficienti ad escludere che il pubblico potesse confondersi e associare le due aziende, nonostante entrambe intendessero utilizzare i propri marchi per vino.

La decisione, pur avendo espressamente riconosciuto che la registrazione anteriore azionata fosse altresì meritevole di particolare tutela in quanto particolarmente nota nel settore in forza degli investimenti compiuti dal titolare per la diffusione dello stesso e il conseguente fatturato non trascurabile, del quale l’opponente aveva fornito copiosa prova, ha comunque concluso per la registrabilità della domanda di marchio opposta, rilevando anzi che la pacifica coesistenza delle due aziende nella stessa area geografica varrebbe come indice ad escludere che il pubblico possa confondersi tra i rispettivi marchi, essendo abituato a percepirli di frequente nei medesimi canali. Insoddisfatta dell’esito della pronuncia, il titolare della registrazione anteriore ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione dei Ricorsi, che ha riformato la decisione dell’Ufficio brevetti e marchi accertando, quindi, il possibile rischio di confusione.

In un interessante passaggio della decisione commentata, la Commissione dei Ricorsi sembra prendere le distanze dal principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 2016; la Commissione infatti ci ricorda che la concentrazione tipica del mercato vitivinicolo e la conseguente tolleranza della compresenza di marchi includenti/consistenti nel medesimo cognome del produttore non è un principio assoluto, bensì un criterio che è stato enunciato in un giudizio di merito per contraffazione nel quale il Giudice è chiamato a prendere in specifica considerazione il profilo dell’uso.

In altre parole, nel caso “Castella” l’indagine volta ad escludere la contraffazione aveva tenuto conto dell’effettiva coesistenza dei segni sul mercato, circostanza che aveva permesso di stabilire la capacità del pubblico di distinguerli e quindi l’assenza della confusione.

La Commissione però ricorda che nell’ambito del giudizio amministrativo dinanzi all’Ufficio brevetti e marchi il profilo dell’uso in concreto dei segni non riveste rilevanza; per tale ragione la valutazione della particolare natura del settore merceologico dei vini non può di per sé escludere la possibilità del rischio di confusione in astratto, anche se una delle parti asserisce che i segni stiano di fatto convivendo sul mercato.

Inoltre, la Commissione ha riconosciuto maggiore rilevanza alla “notorietà” della registrazione anteriore azionata di quanto non abbia fatto l’Ufficio in primo grado, assegnando una maggiore tutela al marchio in questione in quanto la sua diffusione aumenterebbe il pericolo non solo che i consumatori possano confondersi ma anche che altri produttori possano trarre un indebito vantaggio dalla fama del marchio precedente agganciandosi alla sua reputazione.

La decisione ha quindi respinto definitivamente la domanda di marchio dell’azienda agricola Vacca Francesco & Mario di Vacca Saverio.

La decisione, anche se emessa a conclusione di un procedimento di natura amministrativa, segna un interessante precedente rispetto a un principio che sembrava consolidato e che spingeva all’adozione e al deposito di marchi includenti patronomici identici o simili a quelli già usati o registrati da altri operatori nel settore dei vini, confidando nella possibilità di difendersi da eventuali opposizioni o azioni di contraffazione. La sentenza potrebbe essere un ottimo precedente da invocare in sede amministrativa al fine di evitare che concorrenti ottengano la registrazione di segni patronimici troppo simili al proprio marchio registrato, anche se l’accertamento dell’effettiva contraffazione resta affidato al Giudice di merito e appare più ostico, proprio per il peso che viene assegnato all’uso in concreto e al fattore della concentrazione del mercato dei vini rispetto ad altri settori merceologici. In ogni caso, la possibilità di difendere l’esclusiva del proprio marchio patronimico aumenta considerevolmente in caso di marchio notorio; un buon stratagemma quindi rimane sempre quello di investire sul brand al fine di accrescerne la diffusione e la rinomanza.